Sollevando lo sguardo, il Castello si staglia contro il cielo invernale.
Sulla Torre Mirabella sventolano come sempre tre bandiere: quelle della città, della Confederazione Europea e del Grande Mercato.
Mi trovo in via Crocifissa di Rosa, lungo la quale è appena passato il convoglio della linea 7 della metropolitana.
Le luci natalizie scintillano sui lampioni e sugli edifici, anche se ormai pochissimi ricordano davvero la storia di questa festa.
Un simpatico anziano mi ha raccontato, con un misto di riprovazione e nostalgia, i tempi in cui questa strada era ingolfata di automobili.
Dice che da quando sono state messe fuori legge – son passati ormai quarantacinque anni – gli capita di rivedere in se stesso la figura del nonno che gli raccontava delle carrozze lungo Borgo Trento.
Mi sento disorientato: è passato ormai un anno da quando avrei ‘perso la memoria’ e sono stato ritrovato tremante e spaventatissimo dietro una colonnina di riconoscimento dell’iride in Piazza della Nuova Vittoria – “vestito in modo assurdo, vecia”, si dicevano delle ragazze che curiosavano, “roba che non si vedeva da almeno quarant’anni”.
Ho conservato la foto che mi fece la Polizia Generale, e ogni volta che la guardo concludo di essere andato a una festa in maschera quella sera, e di aver bevuto troppo.
Non c’è nessun’altra spiegazione per il modo in cui ero conciato: cravatta, barbare scarpe ricavate da pelle di animali, una ridicola giacca con i bottoni anziché con le bande magnetiche, priva di qualsiasi connessione ottica.
Persino un paio di occhiali.
Occhiali?!?
Da morir dal ridere.
In tasca avevo una scatoletta – tecnologia obsoleta e patetico display preistorico. Una roba nera e deprimente. Me ne han fatto vedere qualcuno al Museo, li si usava per parlarsi a distanza.
Allora servivano oggetti esterni al corpo per farlo.
Perché andavo in giro con un vecchiume del genere?
Ancora non son riuscito a ricordarmi chi sono: nonostante l’indubbio accento bresciano, nessuno in città sembra avermi mai visto prima.
D’accordo con le autorità ho scelto per me il nome Faustino Speri.
Passo giorni interi a camminare fissando la gente nella speranza che qualcuno si ricordi di me.
La mia iride non risulta nella Banca Dati Centrale: sono l’unico in tutto il Dipartimento dell’Italia A, cioè cinquanta milioni di persone – quattro di origine europea, dieci di origine cinese, quindici di origine araba, sei di origine africana e quindici milioni a sangue misto.
Impossibile capire chi io sia, da dove venga o perché la mia memoria sia così danneggiata.
Non c’è traccia di me da nessuna parte.
L’unico fremito in questo senso l’ho provato in un paio di occasioni in cui ho incrociato un ragazzo sempre un po’ scuro in volto, che mi assomigliava in modo inquietante – ovviamente si trattava solo di suggestione.
Ogni tanto, inspiegabilmente, ricorro a un lessico ormai in disuso.
Ho visto spesso i miei interlocutori strabuzzare gli occhi quando ho pronunciato parole come “cimitero”, “inquinamento”, “pensione”, “straniero”, “fede”, “lavoro”.
Nemmeno io so spiegare perché mi vengano in mente parole che si trovano solo nel vocabolario come forma di antiquariato.
Vado spesso a camminare nello storico quartiere del Càrmen.
C’è sempre una quiete straordinaria – è l’unico luogo del centro dove non sia necessario ricorrere alla barriera magnetica insonorizzante alle finestre per dormire.
Non c’è nulla lì che non siano bei palazzi appisolati.
Quando chiedo come ci si sia riusciti mi dicono sempre che è una storia lunga e lontana nel tempo, che nessuno ricorda più nel dettaglio.
Una volta, nelle sere dei weekend, qui si concentravano tutti i bighelloni e i casinisti della città, dicono.
Mi piace andare a mangiare la pizza in una forneria del centro, una pizza particolare, che sa vagamente di birra, dall’ingrediente segreto. Alla cassa c’è una donna incredibilmente vecchia – la leggenda vuole che abbia più di 150 anni, ma mi sembra un po’ strano.
Tende la mano ossuta piena di anelli per darti il lettore ottico di falangi per il credito con la stessa verve che immagino avesse ottant’anni fa.
Ho visitato il Museo Fotografico della Città, stupendomi ogni volta per la bellezza dell’inceneritore: era necessario abbatterlo? Non bastava spegnerlo perché ormai non serviva più?
Mi son fatto grandi risate apprendendo che il Monastero di Sant’Eufemia, da decenni il più bello spazio comunitario della città, era stato trasformato in un demenziale museo dell’auto in cui non entrava mai nessuno.
Mi piace camminare qua e là per la città, anche se non siamo rimasti in molti a farlo, perché quella odiosa tavoletta magnetica che si mette sotto i piedi, senza ruote ed autoguidante, soddisfa troppo i pigri.
Cammino spesso nei giardini di Canton Mombello, l’ex-Carcere, specialmente nelle sere d’estate.
Son passati solo quarant’anni dalla Riforma Penale, eppure sembra incredibile che nel nostro secolo esistesse ancora una galera.
Oggi, dopo la condanna, la macchinetta del giudice toglie dalla Fedina Microchip gli anni di pena decretati dal magistrato, e via.
Per un omicidio si sottraggono settant’anni di vita – un bel deterrente, visto che l’Interruttore della Vita scatta al compimento dei centotrenta.
Una prigione… Vien da sorridere a pensarci.
Lì vicino c’è il Mercato di piazzale Arnaldo – specializzato in frutta.
Le siùre mi han spesso raccontato che una volta i frutti erano tutti diversi tra loro. Ogni mela era diversa dall’altra? In che senso?
Non sono mai riuscito a capire. Mancherò di immaginazione.
In alto sulla piazza da qualche mese campeggia l’ologramma pubblicitario della Playstation 10.
Il Podestà dispone che i giovani fumino almeno un grammo di marijuana al giorno.
A Casazza, nella Black Street, in tutti i parchetti regna la noia e un senso di stanchezza, ma i sorveglianti sono implacabili – bisogna fumare anche se non se ne ha voglia.
I genitori ogni mattina validano la tessera dei figli con lo sguardo, obbligandoli al salutare rito del Rilassamento di Stato.
Queste righe che sto proiettando con la mente sul mio display neurale sono illegali, quindi le imprimo di nascosto nella memoria della mia giacca (modificata da un amico hacker) e cancello tutto dal display dopo ogni frase: l’autobackup nella Memoria Ufficiale ha luogo ogni trenta secondi.
Da quasi trent’anni è vietato scrivere qualcosa che non sia una lista o un’analisi – pochissimi sentono la mancanza di cose un po’ patetiche come la poesia o la narrativa.
I classici come Tolstoj, Balzac, Manzoni, Dante o Fabio Volo sono letture obbligatorie: hanno già detto tutto ciò che c’era da dire, e quindi il Parlamento del Grande Mercato ha deciso che sarebbe stato inutile e dannoso aggiungere altre, trascurabili idee.
Questo vale anche per i partiti politici e gli spettacoli.
Tra qualche mese c’è una ricorrenza straordinaria: il Centenario della Strage.
Sharifa Gaffurini, la bimba dei miei vicini di casa, la sera del 27 maggio dello scorso anno ha bussato alla mia porta. Da più di cinquant’anni, la sera della vigilia, i bambini delle scuole elementari suonano alle porte dei vicini per raccontare l’incredibile storia della Bomba.
Non so se mi sconvolge di più che ci fosse gente disposta ad uccidere per motivi politici oppure il fatto che la politica in quegli anni esistesse ancora.
Sharifa sa raccontare molto bene la storia.
L’esplosione.
I morti e i feriti.
Gli anni bui dei depistaggi e dei processi inutili.
La svolta del 2014 e la condanna di tutti e duecento i responsabili diretti e indiretti.
Le lacrime dei sopravvissuti.
Ho ringraziato la bambina per il suo bel racconto.
Il giorno dopo ho portato un fiore in piazza Loggia.
L’ho aggiunto all’altissimo mucchio che ricopriva il piedistallo di una bella statua in bronzo.
Raffigura Manlio Milani, amatissimo ultimo Presidente della Repubblica Italiana prima che questa si sciogliesse per sempre nella Confederazione.
In certe sere mi agito un po’, combattendo con un fatto che sta lì davanti ai miei occhi.
Nonostante i miei sforzi purtroppo non ricordo di esser stato presente in quel momento, che però sembra proprio esserci stato.
Incredibile.
Guardo la maglia blu con la V bianca appesa al muro di fronte a me, e mi dico che sì, quel pezzo di stoffa bianco rosso e verde sul petto è davvero cucito in linea con la Leonessa rampante, e io non sto sognando.
È successo davvero.
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