I figli che non avremo. Risposta al Dalmata

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“E’ evidente che il problema principale, perlomeno in Italia, è la stasi collettiva di milioni di persone, ancorate alla fase adolescenziale della vita”, scrive il buon Dalmata.
Giusto. Giustissimo. Ma non solo in Italia, nell’intero Occidente (diciamo che il Belpaese ha avuto un aiuto su questa via, che poi vedremo).

La questione degli Young Adult (titolo di un film mercoledì proiettato all’Eden) risale al non tanto lontano 1968, quando la volontà di potenza dei giovani di allora si alzò sulle barricate inneggiando alla fine del lavoro e della famiglia, alla deregolamentazione della sessualità, il tutto farcito di un “vitalismo giovanilistico, oblio della storia e presenzialismo spontaneistico” (Perniola).

Poi ci furono gli anni ’70, e si passò dal complesso di Edipo della decade precedente, in cui i figli vedevano  i loro padri (la Legge) come ostacolo nel proprio realizzarsi, all’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, dove la storia invece di tanti combattenti partorì una miriade di orfani (simbolici: in cui il Padre non veniva combattuto, ma negato).
Infine (spero non siate già passati al “Notiziometro Facebook” di Repubblica), l’avvento al potere di sua Emittenza Silvio Berlusconi.

Il Cav ha portato al governo le tematiche di cui i sessantottini si sono da sempre fatti portatori. Chi, più dell’uomo di cera, rappresenta il vecchio che non vuole invecchiare, l’uomo che dorme “solo tre ore” la notte, il festaiolo di provincia che “urla per una botta di vita con una troia affittata”?

Ecco, a questo passaggio epocale, che ha avuto un’incubazione di più di quarant’anni, non si può certo chiedere di figliare persone “rassegnate a vivere una vita normale” (in tutto ciò che scrivo non c’è nessun giudizio moralistico, né nessuna nostalgia per un’età dell’oro che non c’è mai stata).

Una visione della vita che trascende la quotidianità e la storia“: ecco, nella volontà di avere un figlio, forse non esiste niente di più nobile.
Ma come può esistere, tale visione, se siamo stati educati nell’effimero dell’eterno presente televisivo, che ora si trova a competere con network  – sul social discutiamone – quali Facebook e Twitter?
Come può esistere in una società segnata da un senso identitario fondato sulla provvisorietà del consumo, dal cambiamento continuo, dal tempo ‘storico’ della scadenza, del passare fuori moda?

“L’unico nucleo di identità destinato a emergere illeso dal cambiamento continuo è quello dell’homo eligens (l’uomo che sceglie, ma non che ha scelto!), di un io stabilmente instabile e completamente incompleto” (Bauman).

Difficile, inoltre, “trascendere la quotidianità” all’interno di un discorso pubblico che applica sistematicamente la rimozione totale della paura della vecchiaia e della morte (solitudine, sofferenza e morte non stimolano i consumi… per adesso).

***

Mi rifaccio ancora al buon Dalmata, che scrive, più o meno scherzosamente: “Non posso creare nuova vita in questo mondo infame!
Beh, io non sottovaluterei questa esclamazione. Un figlio è la più grande scommessa che si possa fare sul futuro, ma qual è questo futuro.

Mia nonna ha cresciuto mia madre convinta –  e facendo di tutto affinché fosse vero – che sua figlia sarebbe vissuta in un mondo migliore. Dicasi lo stesso per mia madre con me.
Ma io in che prospettiva crescerei mio figlio?

Siamo la prima generazione che avrà un tenore di vita peggiore di quello dei suoi genitori dalla fine della seconda guerra mondiale. Siamo un esercito di trentenni che non possono lottare per niente se non per sopravvivere (il ’68 ha fatto un sacco di danni, ma almeno si combatteva per un mondo migliore).
In più, ci costringono a vivere alla fine della storia: dopo la caduta del muro nulla può più accadere, se non cercare di tenere in piedi questo mondo fatiscente.
Bella prospettiva, cercare di migliore l’amministrazione tecnica dell’esistente.

“Il problema della fine è legato a quello del senso della Storia, e ciò che è sicuro è che la Storia non ha più finalità. Non ha più trascendenza. Oggi viviamo una disillusione soggettiva, dove a livello collettivo non esiste più alcun tipo di progetto e, allo stesso tempo, il passato non è più vissuto come un tempo reale: da ciò nasce una sorta di panico” (Baudrillard).

Poi, sono convinto, si può arrivare anche a quarant’anni e, guardandosi in retrospettiva, accorgersi che “la nostra, alla fine, è banalmente una visione della vita che ha come conseguenza la negazione della vita stessa“. E a quel punto, di fronte alla “constatazione del nostro nulla” (copyright del Perozzi) sentire la necessità di avere un legame con la terra che ci ha dato la vita, e cantare come gli Afterhours…

Questo bambino ci salverà
piange per dirci che sa
Dalla noia nascon fiori unici…

Un vero atto d’amore per mettere al mondo un figlio, non c’è che dire. Come lo chiameremo il bimbo, ammissione di un fallimento?

***

Ed eccoci a oggi, allora, con bambini condannati a vivere a fianco di questi 30-40enni dove non si capisce più chi è il figlio e chi il padre (spesso, una volta adolescenti, sono loro che devono prendersi cura dei genitori, sempre giovani, sempre identici). Edipo è morto e sepolto, resta Telemaco – figlio di Odisseo e di Penelope – che per anni guarda il mare aspettando disperatamente il ritorno del padre, senza il quale il mondo appare svuotato di senso.

La distruzione della figura paterna, iniziata nel ’68, ha generato un bisogno che solo all’apparenza sembra il suo opposto, ma ne è in realtà il suo superamento: non più il tiranno-capo famiglia, ma la domanda di una responsabilità e di un’autorevolezza, che siano anche portatrici di un’apertura verso il futuro. Perché…

“la Legge che il padre incarna, senza pensare mai di esaurirla nella sua persona, non si manifesta affatto come una pura negazione repressiva, ma come ciò che sa rendere possibile il desiderio. È il problema della trasmissione: una generazione deve donare all’altra, insieme al senso del limite, la possibilità dell’avvenire, il desiderio come fede nell’avvenire” (Recalcati).

 
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