Lo sguardo indugia. Sono al supermercato, sto attendendo che mi consegnino una tessera; è il 31 marzo, sono le 17 e qualcosa.
Ho perso il conto dei giorni che sono passati da quando questa agonia è iniziata, da quando la mia terra è stata dilaniata da questo dannato virus che ricorda da vicino una delle piaghe d’Egitto.
Di fronte a me c’è questa signora: mascherina e guanti come me. Ha l’aria stanca, le hanno appena comunicato l’ennesima disposizione da seguire. “Casso ma che coioni ‘ste corona virus”: è affranta, stufa, stanca.
Sotto la mascherina mi scappa un sorriso: perché la penso come lei. Perché pure io, come tutti, sono stanco, stufo. Non vedo una data di scadenza di questa pandemia. E le indicazioni che arrivano da chi ci dovrebbe proteggere sono contrastanti. Lo sono state dal primo momento. Poi per carità, noi siamo nell’occhio del ciclone, anche se qualche responsabilità ce l’abbiamo.
Ma non è tempo di parlare di questo. Non ancora, almeno.
Ora è tempo di continuare a fare quello che abbiamo cominciato da qualche settimana. Perché questa soundtrack di ambulanze deve terminare, perché tornare ad essere noi stessi (anche se ci vorrà molto tempo) dev’essere la luce in fondo al tunnel. E dobbiamo continuare a vederla e a credere che il suo bagliore cresca di giorno in giorno. Non cerchiamo la speranza altrove: siamo noi stessi la speranza. Cerchiamo di essere veramente responsabili. Fino in fondo.
“Mi scusi, eh. Non volevo assolutamente essere così volgare. Ma cerchi di…”
Sorrido ancora sotto la mascherina. Vorrei tirarla giù, la mascherina. Cerco di ridere con gli occhi e lei lo capisce.
“Ci mancherebbe, non si preoccupi”.
Vorrei abbracciarla, come vorrei abbracciare tanta gente. Vorrei correre a Bagnolo ad abbracciare Vincenzo che dopo una lotta indicibile a Milano, da solo, è rientrato a casa. Ma non si può: questo dannato virus ci ha tolto tanto. A molti tutto. Ha reso la morte qualcosa di orribile perché non permette nemmeno un ultimo omaggio, un saluto, una preghiera di fronte a chi sta andandosene. Ieri abbiamo saputo che non c’è più un ragazzo che ha fatto parte della nostra squadra: la notizia di una perdita fa sempre male, quella di Alessandro ancora di più.
Perché è la conferma che questo virus non guarda in faccia nessuno. Pertanto lucidi e attenti. E pazienti.
“Mi scusi tanto, veramente non volevo”. Lei cerca ancora di scusarsi. Non c’è motivo di farlo. Sorrido, ringrazio , saluto da sotto la mia mascherina e vado verso l’uscita.
Mi inchiodo, giro i tacchi di 180°.
“Forza!” Glielo dico, a voce alta, non c’è bisogno di urlare, ma di bypassare il filtro della mascherina sì.
Lei mi guarda, e stavolta vedo, o almeno provo a immaginarlo, il suo sorriso.
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