Esordio su Odiopiccolo per Nicola Cargnoni, un tifoso bresciano “esiliato” a Brindisi. Un amico di Odiopiccolo in cui ci siamo imbattuti per caso qualche anno fa durante una trasferta biancoazzurra. Un racconto, il suo, estremamente esaltante, carico di emozioni. Un racconto vero e proprio, che vi coinvolgerà, facendovi rivivere una stagione incredibile, l’ultima del “Divin Codino” con la maglia delle rondinelle.
Buon divertimento.
Zob0n aka Alberto Banzola
L’orologio della memoria è una cosa strana, che sfugge alle normali regole del tempo, che agisce proiettando la nostra mente in un momento del passato, magari facendocelo rivivere e scandendo gli attimi in maniera netta, pulita, limpida, rendendo i nostri ricordi non soltanto un frammento di vita consumata, ma veri e propri momenti di abbandono della nostra coscienza alla volontà di rivivere in maniera intensa quelle esperienze che rendono unico ognuno di noi.
L’orologio della memoria è un meccanismo imprevedibile, che a volte ci sorprende con una foto, una canzone, un film, e che con questi mette in moto ricordi che credevamo sedimentati nelle nostre menti, magari coperti da uno strato di polvere che li rendeva invisibili.
L’orologio della memoria può anche essere comandato… alcuni ricordi migliori della mia infanzia risalgono a certi pomeriggi primaverili, quando usavo il bastone col gancio per aprire la botola da cui scendeva la scala del solaio di casa mia. Quella scala di ferro, tenuta insieme da molle e bulloni, e che si allungava, come in un abbraccio, dal soffitto verso il pianerottolo, ai miei occhi sembrava essere l’ingresso verso un mondo fantastico, misterioso, sconosciuto. Salivo quella scala come se stessi entrando in un’astronave, o in un’altra dimensione, forse suggestionato dai racconti di quei monumentali libri che amavo leggere già allora.
E alcuni miei pomeriggi trascorrevano lì, in una piccola Narnia fatta di pareti e pavimenti di nudo cemento, con l’aria umida e stantia, col tetto che qua si alzava e qua si abbassava, creando antri e vani in cui la mia fantasia ambientava storie e vicende d’altri tempi, d’altri luoghi. E lì, tra i vecchi giochi inscatolati, i vecchi libri di mio papà, i quaderni delle elementari di mio fratello, i miei Lego e gli impolverati bambolotti, lì vivevo alcune delle mie giornate di bambino, in stanze e spazi dove oggi la mia goffa sbadataggine mi costringe a sbattere la testa a ogni movimento.
Ma ci sono momenti e oggetti della nostra vita che non si possono soltanto conservare in soffitta: feticci e ricordi che dobbiamo sempre avere con noi, ovunque noi siamo, in ogni momento della nostra piccola e personale storia su questo mondo. Uno di questi oggetti è “la scatola con la roba dello stadio”. Anche se ho superato i trent’anni, anche se vivo a circa mille chilometri dalla mia amata Brescia, in un piccolo spazio dell’armadio in camera mia c’è “la scatola con la roba dello stadio”. Una volta era uno scrigno in cui conservavo tutto ciò che riguardava la mia vita letteralmente plagiata dall’impegno settimanale con “la partita del Brescia”, un forziere con le testimonianze dei miei anni (più di ventuno) di frequentazione dello stadio: ci tenevo dentro i biglietti delle partite, le fanzines e i volantini della curva, gli adesivi, gli stendardi fatti con bombolette spray su vecchie lenzuola, i cimeli, le figurine Panini, tutto. Oggi molti di quegli oggetti sono finiti tra cassetti, armadi e soffitta, ma quella scatola conserva ancora alcune delle cose a cui sono più legato: è diventata la mia piccola soffitta ambulante e contiene i tasselli di un mosaico colorato, una parte importante e fondamentale della mia vita, di quel che ero, di quel che oggi ancora sono.
Piegate, in quella scatola, ci sono le sciarpe vecchie e nuove, quelle del “Brescia club Lago d’Idro” (un cimelio risalente agli anni in cui ero ancora troppo piccolo per andare allo stadio), quelle della curva nord con cui feci gli anni dal 1997 al 2004, quelle del gruppo curva sud (ora diventato CNB) frequentato negli anni di una più raggiunta maturità. Le sciarpe stampate con gli sfottò per atalantini e veronesi, comprate alle bancarelle intorno allo stadio, o quella autografata da Baggio al ritiro di Vipiteno nell’estate del 2001. Vi sono sciarpe amiche e nemiche, da quelle delle gemellate Mantova, Salernitana, Cesena e Milan, a quelle di Verona, Fiorentina, Cremonese “conquistate sul campo”. Un passato che sarebbe stupido rinnegare e che mi ricorda quanto il calcio sia stato importante nella mia fase di crescita, quanto i suoi valori di amicizia, impegno, assiduità e costanza abbiano contribuito a rendermi ciò che sono oggi.
Ma, soprattutto, in quella scatola c’è uno spirito in grado di travolgermi ogni volta che la apro, fermando, manipolando e muovendo l’orologio della mia memoria, capace di rievocare l’odore di ferro bruciato di chilometri macinati sui binari d’Italia a bordo di bidoni arrugginiti che una volta potevano essere stati treni o l’aria viziata dei veri e propri lamieroni che una volta potevano essere stati pullman.
È il profumo dell’emozione provata ogni volta che si entrava in uno stadio nuovo. È il fremito della Gendarmerie schierata sotto l’arco di trionfo in quella trasferta a Parigi, è l’esplosione di gioia della vittoria in casa col Bologna per la storica salvezza del 2002, in quel 5 maggio passato alla grande storia per lo scudetto perso dall’Inter, ma che nella nostra piccola storia è il giorno in cui ci siamo salvati mandando in serie B un Verona che, a metà campionato, era proiettato in zona-Uefa. È la scossa elettrica per la trasferta a Milano, domenica 29 febbraio del bisestile 2004, in cui vincemmo 3 a 1 con l’Inter. È la fastidiosa instabilità delle lastre di ghiaccio sulle gradinate in alluminio e cemento dello stadio di Piacenza; è l’assurdità di un gommone, spacciato per traghetto, usato per trasportarci sull’isolotto dove sorge lo stadio di Venezia. È il rumore assordante delle urla disumane della guerriglia all’esterno dello stadio di Modena, in una domenica dove ogni concetto di dignità e di pietas umana è letteralmente scomparso in quel lembo di mondo controllato dal Secondo reparto Celere di Padova.
Brescia – Bologna 3-0 (2002 – le fotografie dei festeggiamenti)
Quell’estate del 2003 fu una delle più torride mai trascorse negli ultimi decenni in questa parte del pianeta; per quanto mi riguarda, fu una delle stagioni più serene della mia vita. C’erano le soddisfazioni personali e famigliari, c’era la salute, c’era il lavoro (anzi due: durante il giorno facevo il cuoco in un ristorante, la notte facevo il barman in un pub). Il mio diploma di scuola alberghiera riporta la data del 28 giugno 2003, e il caso vuole che sia lo stesso giorno in cui ho assistito all’epico concerto di Springsteen a San Siro. Quella sera ci fu un nubifragio incredibile, anche perché era la prima pioggia dopo circa quarantacinque giorni di caldo tropicale; mentre i settantamila del pubblico si scatenavano durante le tre ore e mezza di concerto, all’esterno alcuni alberi mastodontici dicevano addio al luogo dove le loro radici si erano alimentate per diversi anni, sradicandosi irrimediabilmente. Fuori era l’apocalisse, mentre Springsteen saltava come un grillo sotto l’acqua, e noi con lui.
È curioso, invero, che i miei ricordi di quella estate riguardino soprattutto il The Rising tour di Springsteen e in particolare quel concerto in quello stadio, il Giuseppe Meazza di Milano. Già, perché quella sera del 28 giugno mai avrei pensato che sarei tornato lì, quasi un anno dopo, per una delle esperienze più emozionanti della mia vita.
Carletto Mazzone lasciò la panchina del Brescia dopo tre anni di soddisfazioni e di piccoli successi: salvezze, vittorie con squadre importanti, alcuni record, la finale di Intertoto col Paris Saint-Germain, la corsa sotto la curva dell’Atalanta, l’intuizione di posizionare Pirlo davanti alla difesa e, soprattutto, la capacità di gestire Baggio come mai nessun altro aveva fatto prima. Piccoli successi che nella nostra storia assumono il valore di uno scudetto o di una coppa.
Il buon vecchio Carletto ci sarebbe mancato, ma al suo posto arrivò il capace Gianni De Biasi. Personalmente ero fiducioso, anche perché la rosa della squadra era ricca di giocatori che hanno lasciato il segno: Castellazzi e Viviano tra i pali, Dainelli, il rude Mareco, il costaricano Martinez, “occhi-blu” Petruzzi (e le sue passeggiate tra via X giornate e corso Zanardelli), Castellini, Stankevičius e Zambelli per il settore difensivo, Mauri, Schopp, Brighi, Gigi Di Biagio, Matuzalem, Bachini, Correa e Del Nero a centrocampo. In attacco forse non eravamo in esubero di personale, ma c’erano Pippo Maniero con Baggio e Caracciolo: quest’ultimi fecero dodici reti a testa.
L’inizio della stagione fu deludente: eliminati in coppa Intertoto dal Villareal, la prima giornata di campionato pareggiammo col Chievo; seguì una disastrosa trasferta a Roma dove perdemmo cinque a zero e poi un 4-4 in casa con la Reggina. Cinque gol fatti e dieci subiti in tre giornate. Fin da subito si capì che sarebbe stato un campionato anomalo, che poteva anche riservare alcune piacevoli sorprese in campo e sugli spalti.
Una di queste sorprese ci colse la mattina del 28 settembre 2003: nella notte, per un problema della rete elettrica ai confini con la Francia e la Svizzera, ci fu un black-out che paralizzò l’intera nazione. Me ne accorsi già tornando dal lavoro verso le quattro; quella domenica mattina, alla stazione centrale di Brescia, ci rendemmo conto che a causa del black-out non ci sarebbero stati i treni speciali che avrebbero dovuto portare circa cinquemila persone in trasferta a Genova, per l’incontro con la Sampdoria.
«E adèss che fòm? Nòm o mia?».[1]
«Sì, ma come?».
La tensione era palpabile, anche perché quel giorno i nostri ragazzi avevano bisogno del sostegno del loro pubblico. La decisione fu quasi spontanea e unanime: chi se la sente va in macchina.
Risultato finale 2-1 per la Sampdoria e circa duemila bresciani in trasferta a Genova in automobile, in una di quelle giornate finite comunque in festa nonostante il verdetto del campo.
Ma la domenica successiva sarebbe stato il Salento a diventare terra di conquista: una trasferta, quella di Lecce, che è storicamente propizia per le rondinelle. Il 5 maggio 2001 fu 0-3 per noi, tripletta di Baggio con il secondo gol direttamente dalla bandierina del corner. Il 27 gennaio 2002 fu 1-3, ma quella è una storia che merita di essere raccontata a parte: prima partita giocata dopo la morte di Mero e primo gol in serie A di Emanuele Filippini, uno dei più cari amici dello Sceriffo. E il 5 ottobre 2003 fu 1-4, con la prima tripletta di Caracciolo suggellata dal gol di Baggio. Unico marcatore del Lecce: il bresciano Cassetti. Evidentemente quella domenica doveva essere tutta nostra.
A quella prima e abbondante vittoria in campionato seguì un filotto piuttosto deludente che mise in crisi l’ambiente e la situazione di mister De Biasi: il pareggio in casa con l’Inter (in vantaggio 2-0, venimmo raggiunti 2-2, ma quella partita decretò comunque l’esonero di Cuper dalla panchina nerazzurra), maturato in un uggioso pomeriggio del 18 ottobre 2003, giorno in cui trascinai mia mamma con me in curva nord; poi le sconfitte con Juve, Parma e Udinese, i pareggi con il Bologna di Mazzone, l’Ancona, il Modena e il Perugia e l’unica vittoria con l’Empoli, giocata in casa indossando la terza maglia, che era una Robe di Kappa di uno scurissimo blu notte, simile al nero, con la V bianca sul petto e il numero arancione sulle spalle. Insomma, la pausa natalizia arrivò dopo aver conseguito poche sconfitte, tanti pareggi e soltanto due vittore. Dal punto di vista sportivo era tutta un’incognita, da quello umano invece la vera mazzata arrivò il 29 dicembre.
Brescia – Inter 2-2 (Gol di Roberto Baggio)
Brescia – Empoli 2-0 la partita vissuta sugli spalti (servizio di DODICESIMOinCampo)
Quel giorno Roberto Baggio, in un’intervista rilasciata a Teletutto, annunciò che a fine stagione avrebbe dato l’addio al calcio giocato. Fu un capodanno all’insegna degli «auguri di buon anno… sì, ma…». Perché, in fondo, in noi era viva la consapevolezza di essere testimoni di un importante pezzo di storia umana e sportiva. Di tutti i ricordi che salgono alla mente aprendo “la scatola con la roba dello stadio”, quelli degli anni di Baggio sono i più vivi, vigorosi e più indelebili, anche rispetto a eventi cronologicamente più recenti. Eravamo orgogliosi di ospitare “in casa nostra” il campione più grande di ogni tempo, ma ora avremmo avuto l’onore e l’onere di accompagnarlo per mano verso il tramonto di una carriera che non gli ha dato le soddisfazioni che avrebbe meritato. Fu con quell’annuncio che prese corpo la convinzione che, da quel momento, mai avremmo mollato, mai saremmo mancati, mai avremmo perso la speranza e la voglia di crederci.
Un paio d’anni prima era arrivato nelle librerie il primo libro autobiografico di Roby Baggio, «Una porta nel cielo»[2], che lessi febbrilmente e avidamente più d’una volta, portandolo con me nello zaino delle superiori insieme a pochi testi che erano le mie bibbie di quegli anni: «Il deserto dei Tartari» di Buzzati, «I Furiosi» di Balestrini e «Alta fedeltà» di Hornby. Mi approcciavo al testo di Baggio con la religiosità di chi sa che sta leggendo la testimonianza di un campione (letteralmente) mutilato. Baggio, fin dagli albori della sua carriera, aveva subìto un infortunio gravissimo, che avrebbe troncato la carriera di chiunque. Anche la sua, a dire il vero. Ma l’incontro con la meditazione e una forte passione per il calcio lo hanno portato a compiere una ventennale carriera sui campi di calcio, sempre e costantemente nella morsa di un dolore che avrebbe impedito a chiunque di mettere piede in campo. Giocava con una gamba e mezza. Questo mi porta ancora oggi a elevare Baggio al di sopra di chiunque, compresi Maradona, Cruijff, e altri nomi altisonanti.
Il mercato di gennaio vide la partenza di Antonio Filippini, un fatto che personalmente mi rattristò parecchio. In entrata non si mosse quasi nulla. Sugli spalti continuammo a restare divisi tra il gruppo della curva nord e quelli della “vecchia guardia” che stavano in gradinata, settore che frequentava anche mio papà, naturalmente lontano dalle zone calde. Frequentavo la nord e il gruppo che la “animava”, conoscendo personalmente molti dei ragazzi che facevano parte del direttivo, ma senza mai prendere parte alle dinamiche e senza mai caldeggiare o appoggiare troppo i contenuti dei volantini, quasi sempre polemici, che ogni domenica venivano stampati in centinaia di copie. Del resto avevo ancora sul gozzo quello “sciopero del tifo” che ci costrinse a non fare cori e a non supportare il Brescia nei primi venti minuti della finale di ritorno di coppa Intertoto giocata in casa contro il Paris Saint-Germain.
La finale Intertoto vista dai francesi…
Non mancai a nessuna delle partite in casa e ancora oggi conservo l’abbonamento di quella stagione, con un “buco” segnato su ogni giornata. Raggiungevo il Rigamonti con un amico, ogni volta affrontando le “coste” di Sant’Eusebio con il piglio di chi si prepara ad andare in battaglia.
Lo stadio era comunque quasi sempre pieno e l’attaccamento alla squadra era evidente: la befana ci portò un 4-2 sul Siena e la settimana successiva vide la trasferta a Roma contro la Lazio, una partita vinta 0-1 con gol del “romanista” Di Biagio. Le sconfitte con Chievo e Milan ci riportarono sulla terra, ma una dose di fiducia arriva dalla vittoria in casa con la Roma, mentre le due giornate passate in treno per andare e tornare da Reggio Calabria valsero uno 0-0 sul campo della Reggina. Un altro pareggio in casa con la Samp e la sconfitta 1-2 in casa col Lecce anticiparono la memorabile trasferta di Milano contro l’Inter. Tornavo a San Siro, dunque, quando il settore ospiti era ancora in un angolo del primo anello blu. Non andai con la trasferta organizzata dal gruppo, ma in macchina con il mio (allora) datore di lavoro, tra l’altro tifosissimo dell’Inter. Ci separammo all’ingresso dello stadio. Dagli spalti osservai il campo da gioco, ricordando una ad una le canzoni della scaletta del 28 giugno 2003 e ricordando la quantità di acqua assorbita quella sera dal mio corpo. Noi stavamo messi male, tra l’altro orfani di Baggio, ma l’Inter era quella degli anni in cui dava molte soddisfazioni ai suoi avversari. Inter in vantaggio, pareggio di Caracciolo, vantaggio di Del Nero e doppietta di Caracciolo per l’1-3 finale, in un Meazza semi vuoto, ma non ammutolito, dove gli interisti si lasciarono andare ad animalesche espressioni di dissenso e contestazione.
Brescia – Siena 4-2 (il gol di Roberto Baggio)
La situazione in classifica era sempre al limite della crisi di nervi, a qualche punto di distanza dalla zona calda della retrocessione, ma sempre a portata di mano di chi ci inseguiva; la vittoria con l’Inter non ci salvò dalla sconfitta casalinga con la Juve, maturata in un freddo e piovoso sabato sera di inizio marzo: a fine primo tempo il Brescia era in vantaggio 2-0 e nel secondo tempo la Juve accorciò le distanze con un rigore tirato da Miccoli e fatto ripetere tre volte dall’arbitro a causa dell’errata rincorsa dell’attaccante. Ovviamente le prime due rincorse portarono ad altrettanti rigori sbagliati, mentre la rincorsa buona finì con una rete. Poi pareggio di un Di Vaio servito in posizione di fuorigioco e vantaggio di Nedved dopo mezzora. Nel finale fu negato un rigore netto per un fallo su Mauri, ma da tifosi di una piccola squadra ci eravamo arresi da tempo all’idea che con la Juve si poteva vincere solo con i miracoli, mai con la sola lealtà. Risultato finale 2-3: i media avrebbero parlato, naturalmente, di una Juve coraggiosa che aveva vinto in rimonta. E, naturalmente, gli arbitri possono sbagliare.
Il lavoro al pub mi segava completamente le gambe, almeno per quanto riguardava le trasferte. Dormivo il minimo per poter essere nel piazzale dello stadio al momento della partenza. Fu così anche la mattina del 14 marzo 2004: Parma-Brescia, che non offrì una grande soddisfazione dal punto di vista del risultato (2-2), ma che fu il teatro in cui andò in scena il duecentesimo gol di Baggio in serie A. C’ero e francamente feci quella trasferta per poterlo dire, oggi. Con il Lecce segnò il gol numero 199, con l’Inter non giocò e con la Juve restò a secco, limitandosi a fare assist e a far segnare gli altri. Il gol numero 200 era nell’aria e arrivò a Parma: sotto di 2-1, pareggiammo grazie al gol di Baggio: stop al limite dell’area, finta, mise a sedere il difensore, fece uno scatto in avanti liberandosi anche dell’altro marcatore e mise a segno un diagonale di sinistro che fece esplodere una bolgia incredibile nel settore ospiti del Tardini. I parmensi, a cui avrebbe certo fatto comodo una vittoria, gli tributarono una standing ovation di almeno cinque minuti, che andò al di là di ogni discorso sulla lealtà e sulla sportività. In quella domenica di marzo un intero stadio onorò l’umanità, l’umiltà e la costanza di un campione che avrebbe ospitato per l’ultima volta.
Parma – Brescia 2-2 (Gol di Baggio)
La domenica successiva un’altra trasferta fisicamente ai limiti del sostenibile mi portò al Dall’Ara di Bologna per un inspiegabile 3-0 che ci piegò moralmente, ma che non compromise la successiva vittoria per 5-2 in casa contro un Ancona ampiamente destinato alla retrocessione e al fallimento: Baggio aprì e chiuse le danze, nel frattempo ballarono anche Mauri, Colucci e Caracciolo. Vittoria e 202 gol in serie A per il codino. Seguì una cocente sconfitta per 4-3 a Udine, in una delle pochissime trasferte che non feci, e poi il solito filotto di pareggi con Modena, Empoli (una trasferta in una domenica che avrebbe dovuto essere primaverile e invece fu uno degli ultimi sprazzi di inverno) e Perugia.
Brescia – Ancona 5-2 (primo gol di Baggio)
Brescia – Ancona 5-2 (secondo gol di Baggio)
Udinese – Brescia 4-3 (gol di Baggio)
Arrivò la vigilia della trasferta a Siena, che fu un po’ la resa dei conti finale. Bisognava vincere per avere la certezza matematica della salvezza. Fu la prova del nove, dove i nostri ragazzi dimostrarono il carattere necessario, in una partita dominata dalla tensione agonistica e dall’incapacità dell’arbitro di gestirla nel modo migliore: finì 0-1 per noi, con quattro espulsi (due per parte) e gol di Brighi al 60’ in un soleggiato Artemio Franchi; quella vittoria sancì la quarta salvezza consecutiva e il viatico per un viaggio di ritorno all’insegna dei festeggiamenti.
L’incontro con la Lazio fu l’occasione per salutare per l’ultima volta Baggio al Rigamonti. Si giocava in casa, in una calda domenica di maggio. Stadio gremito, dopo una settimana che trascorse in maniera frenetica e febbrile per le notizie che arrivavano da Milano. Il Milan, vincitore in anticipo dello scudetto, in vista della festa dell’ultima giornata di campionato non voleva rilasciare molti tagliandi per il settore ospiti, nonostante noi fossimo gemellati coi milanisti e nonostante noi volessimo accorrere in massa per l’ultima partita di Roby. Tra telefonate, appostamenti e riunioni del gruppo, io riuscii ad avere alcuni biglietti per la trasferta di Milano, quindi affrontai quel Brescia-Lazio con la tranquillità di chi sapeva che non sarebbe stata l’ultima volta.
Pur non avendo più molto da dire (mentre la Lazio ancora lottava per la Champions) vincemmo 2-1 dopo circa ottanta minuti stabili sullo 0-0. Ma gli ultimi dieci minuti riservarono l’1-0 di Mauri, su assist di tacco da parte del solito Baggio, e il 2-0 maturato con una volata di Schopp sulla destra, triangolazione con Baggio che ricevette palla al centro dell’area, la fermò dribblando l’avversario e segnando l’ultimo gol della sua carriera (il 205esimo in serie A) con il piede sinistro. Inutile il gol laziale a tempo scaduto. Si vinse e si salutò così l’ultima prestazione casalinga del più grande campione passato da Brescia. Io me lo giurai che non avrei pianto, quel 9 maggio 2004, ma davvero non riuscii a trattenere le lacrime per un sogno durato quattro anni che pian piano stava svanendo, lasciando solo le flebili tracce di una gloria terrena che aveva abitato e animato il piccolo impianto di cemento e latta nel quartiere Mompiano, a nord di Brescia.
Brescia Lazio 2-1 (gol di Baggio)
È il 16 maggio del 2004, una bellissima domenica di primavera che per me inizia con ventiquattro ore di anticipo, senza soluzione di continuità tra quel giorno e il precedente: stacco dal lavoro intorno alle cinque di mattina e raggiungo il luogo dove, solitamente, sono solito ritrovarmi con i miei compagni di avventure calcistiche. C’è chi viene da qualche ora di sonno, ci sono io che vengo da dodici ore di lavoro consecutive e c’è chi viene da dodici ore di alcool. Parlo al presente, abbandono l’uso del passato remoto e mando a farsi friggere la concordanza dei tempi verbali: il ricordo di questa giornata è più forte della logica, della coerenza e di qualsiasi altra imposizione grammaticale. Partiamo per Brescia, perché quella mattina la parola d’ordine è solo una: a r r i v a r e p r e s t o.
Già, perché ancora non abbiamo ben chiaro quanti siano stati i tagliandi venduti per il settore ospiti (forse solo seimila), quanti invece ne siano stati comprati per gli altri settori (altri seimila), quanta gente invece sarà costretta a non poter entrare nello stadio. Alla fine non sapremo mai quanti bresciani sono partiti quella domenica. Sicuramente almeno diecimila, probabilmente qualcuno di più. Ci si muove con pullman, treni, auto e qualsiasi mezzo disponibile. Ma la massa di gente è davvero tanta perché possa essere una trasferta compatta. Poi c’è la metro, l’altra metro, il corteo a piedi sul viale alberato verso lo stadio di San Siro. Entriamo, che molti dei milanisti sono già presenti al Meazza. Primo anello verde, angolo verso l’anello rosso. Chi ha il biglietto per il settore ospiti entra lì. Chi è partito da Brescia col biglietto per qualsiasi altro settore, entra lì lo stesso. Altri tempi, meno restrizioni e più buonsenso anche da parte di chi gestisce gli ingressi. E poi c’è il gemellaggio coi milanisti, il settore ospiti è stipato e finisce per fondersi in un tutt’uno con il resto del Meazza rossonero. Davanti a me un papà con la maglietta di Baggio porta sulle spalle un bimbo di tre o quattro anni che indossa la maglietta di Kaka. Loro festeggiano lo scudetto, noi festeggiamo la salvezza, tutti insieme festeggiamo Baggio. Già, perché probabilmente nessuno dei presenti quel giorno si ricorda come andò la partita. Finì 4-2 per il Milan, Shevchenko capocannoniere, partita dai ritmi elevati e senza cattiveria e per noi una doppietta di Matuzalem dalla distanza (secondo gol su assist di… Baggio) a coronare una stagione che lo aveva promosso tra i migliori della rondinelle.
Al 39’ del secondo tempo De Biasi sostituisce Baggio, concedendogli la standing ovation dell’intero stadio, esaurito in ogni ordine di posti con i suoi ottantamila spettatori. Tutti in piedi, tutti ad applaudire l’uscita di scena di Roby, che abbraccia Maldini, alza le mani, saluta, stringe la mano di chiunque gli si faccia incontro. La voglia di giocare e di stupire traspare ancora da ogni suo gesto tecnico, la scelta di lasciare per sempre il campo è dettata da un dolore che lo attanaglia ormai da diciassette anni. Io lo guardo mentre sfila lentamente verso il tunnel degli spogliatoi, con i nostri cori, il nostro grazie, gli applausi di un intero mondo sportivo. Mi immagino la gente davanti alla tv, nei bar, nelle case: chi si abbandona alle lacrime sul divano, chi annuisce lentamente per la consapevolezza di essere il testimone di un pezzo di storia che ha mosso gli animi di molta gente.
E io? Io vado allo stadio da una decina di anni, da quando ne avevo dieci. In questa domenica di maggio del 2004 ne ho compiuti venti da poco e vedo un tassello importante della mia adolescenza svanire piano a piano. I raggi di sole che illuminano il prato del Meazza gettano una luce aurea sul momento di condivisione che sto vivendo. Le lacrime ormai mi escono senza più ritegno, entro in una dimensione ovattata, l’udito mi inganna e mi fa sembrare distante da quella scena, come se la vedessi da fuori; tutto in un colpo mi viene alla mente quell’estate del 2000 quando il Brescia Calcio annunciò l’ingaggio di Roby. E tutti gli anni a seguire, le sofferenze, le lotte sul campo, quelle fuori, i calcoli per salvarsi, le trasferte, gli amici, la certezza che, comunque sarebbe andato il risultato, noi avremmo visto Baggio giocare. In questa domenica di maggio finisce tutto, e in quel tunnel degli spogliatoi, insieme a Roberto, se ne va un po’ della mia adolescenza, se ne vanno un po’ dei miei sogni, muore un po’ della mia spensierata giovinezza.
Roberto Baggio. L’ultimo saluto
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
Era il 15 maggio 1994, avevo dieci anni e il Brescia giocava in casa con il Venezia. Andai allo stadio con mio padre. Ricordo il biglietto, una specie di tagliando simile a quelli che strappavano al cinema. La gente, il pienone, il sole. Ricordo che salimmo la rampa della gradinata, io aggrappato alla mano di mio papà, mentre intorno la mia vista era limitata dalla folla che si muoveva fluida e compatta, scorrendo come un fiume nel suo alveo. Ricordo i cori che si sentivano dall’esterno e si facevano sempre più forti mano a mano che salivo la rampa. Poi il sole, a picco sulla gradinata. La tribuna, dall’altra parte. La gente, i colori, le voci, i rumori, i fischi. Bestemmie, urla, risate. Il gol di Gallo. Il gol di Neri. La doppietta di Hagi. Le traverse di Hagi. La vittoria per 4-2 e un altro passo verso la serie A. L’esultare, senza nemmeno capire bene cosa stesse succedendo in quei momenti, ma l’esser contento perché anche gli altri erano contenti. O imprecare perché anche gli altri imprecavano.
E poi uscire, consapevole di aver vinto, mentre sui muri della città, sui cassonetti, sulle case, sui marciapiedi, ovunque apparì la scritta «Tutti a Cosenza», che nel mio immaginario di bambino doveva essere sulla luna, nonostante alle elementari ci avessero spiegato dove fosse la Calabria. In quella città il Brescia si sarebbe giocato le sue carte per la promozione. Avrebbe perso, ma avrebbe vinto le due partite successive.
E io, affascinato da quel magma fatto di sport, umanità ed emozioni, mi chiedevo per quale motivo si dovesse andare “tutti a Cosenza”, mi chiedevo cosa spingeva alcune persone ad “andare sulla luna”.
Qualche anno dopo l’avrei capito.
A mio papà.
[1] «E ora che facciamo? Andiamo o no?».
[2] Baggio R., Una porta nel cielo, Arezzo, Limina, 2001.
No comments