Come insegna il colosso dello sport Adidas, “impossible is nothing”, anche far lavorare gratis una moltitudine di disperati in fuga per sopravvivere. L’ipercapitalismo attuale, incontrastato monopolizzatore delle immagini (e quindi dell’immaginario), proprio attraverso le immagini riesce a rendere redditizia persino la disperazione.
Hanno una comune peculiarità le decine di fotografie riguardanti i profughi che, ogni giorno, affollano i giornali: molti di loro sono (già) marchiati a causa della primaria necessità di dover indossare qualcosa, provando magari a non morire di freddo. Adidas, Nike, Puma, Dolce e Gabbana, Chanel… siano essi capi firmati o contraffatti, la pubblicità si introduce silenziosa su barconi alla deriva e nelle frontiere protette da filo spinato, captando la nostra attenzione (e il nostro tempo) per accrescere la loro notorietà, misurata dagli indici di borsa.
Cercare di vestirsi senza diventare dei sandwich man oggi è impresa quasi impossibile, perché una marca non è un semplice etichetta, ma un portatore ormai imprescindibile di plusvalore. Racchiude in sé un racconto di qualità ed eccellenza creato attraverso investimenti da milioni di dollari: spot hollywoodiani, pubblicità di ogni tipo, contratti con gli atleti più famosi. L’obiettivo è quello di nascondere, manipolando il nostro immaginario, la realtà di un prezzo gonfiato ad arte (una scarpa Nike da 70 dollari ha un valore di produzione di 16). Il pubblicitario Dan Wieden ha raccontato dove nacque l’idea per uno degli slogan più celebri di sempre, probabilmente il più longevo: “Just do it”. Il 7 gennaio 1977, nello Utah venne condannato a morte Gary Gilmore, accusato di aver ucciso un benzinaio e un albergatore nel corso di due distinte rapine. Quando gli venne chiesto di pronunciare le sue ultime parole, rispose “facciamolo e basta”. Morì davanti a un plotone formato da cinque agenti di polizia, e non gli vennero mai pagati i diritti d’autore. Adesso la storia si ripete, magari scritta sulla t-shirt di tanti altri condannati a morte: “Just do it”, sperando che il gommone non affondi.
Per creare un mondo di consumatori e venderci la gioia del possesso, è stato necessario colonizzare la nostra immaginazione. Anche ogni profugo è già un provetto consumatore, sebbene sia solo un potenziale lavoratore a basso salario. Il racconto racchiuso in ogni marchio gli è infatti ben noto: ha visto le scarpe di Messi alla televisione o su youtube e, sotto un sole a 40 gradi, ha invidiato la donna di un cartellone pubblicitario che beveva Coca-Cola ghiacciata. Non conosce la lingua del paese a cui è diretto, ma gli abbiamo già insegnato a distinguersi attraverso la merce. Questa è la più grande vittoria della globalizzazione capitalista.
Il mondo reale è così stato trasformato in un gigantesco spettacolo a pagamento, la cui trama può avere non pochi risvolti grotteschi. Come l’oscenità di quei volti di disperati abbinati a una griffe, che sia uno “swoosh” su un cappello o tre bande parallele sulla manica di una tuta. Nel 1949, quando il calzolaio Adolf Dassler fondò a Herzogenaurach la “Adolf Dassler adidas Sportschuhfabrik”, ancora non sapeva che un giorno avrebbe gentilmente offerto ai telespettatori uno sbarco di siriani e iracheni sull’isola di Lesbo.
Immagine di copertina: sbarco di migranti iracheni e siriani sull’isola di Lesbo
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