FUORI I COMPAGNI DALLE GALERE!
Nell’estate del 1983 si giocava per le strade del quartiere – non serve specificare quale, non penso cambi molto – e sui muri cui ci appoggiavamo, incuranti delle malattie evocate dalle madri (qualche volta persino la rogna, in ossequio ai bei tempi andati), campeggiavano scritte come questa.
In vernice rossa, spesso sovrapposta a precedenti scritte in nero.
Noi non ci capivamo niente, se non che c’era qualche connessione col telegiornale, pieno di facce baffute, aule di tribunale, corpi riversi per terra.
Che ci potevamo fare noi, se persino i grandi sembravano impotenti?
La tragedia della Storia svaniva di fronte a un ghiacciolo giallo, e addio.
Il glorioso Commodore 64 aveva un terzo della memoria di un MMS.
In assenza di cellulari e internet, con videogiochi brillanti ma che non potevano inventare realtà parallele, si lavorava molto di fantasia.
Chiunque sia nato entro un certo periodo s’è sbucciato le ginocchia sull’asfalto, ha scritto sui marciapiedi con frammenti di mattoni, esplorato cortili, oltrepassato reti arrugginite (e qui il fantasma era il tetano), venduto giornalini usati sui gradini dei negozi chiusi, giocato nel cono di luce dei lampioni – condiviso con bizzarri, e ormai quasi scomparsi, pipistrelli cittadini.
I più arditi si confrontavano il pipino nel buio delle cantine e dei garage, traendo oscure profezie dall’impietoso confronto.
Uno però era il centro di tutte le energie, la demenziale Terra Promessa di noi giovani nati negli anni Settanta.
Non penso che Filippo Neri, quando ha tratto dal suo santo cilindro l’idea dell’Oratorio, avesse in mente il clima e le facce che c’erano nel nostro a metà degli anni Ottanta.
E sì che doveva essercene di teppaglia nella Roma del XVI secolo.
Il nostro oratorio era un universo di sopraffazione in cui regnavano le botte, l’insulto, l’emarginazione dei deboli, l’arroganza dei forti, il silenzio degli offesi.
Il tutto condito da un linguaggio da camalli, sigarette di cattiva qualità, preghiere ipocrite, dolcetti spacciati sottobanco dalle suore, adulti borderline, adolescenti ritardati e preadolescenti disinibite, un senso degradato dello sport e della socialità.
Per il resto si stava da Dio.
Nel senso letterale.
Non aveva significato la parola bullismo, non ne avremmo capito il senso, un po’ come i pesci di David Foster Wallace non sanno cosa sia l’acqua: era il nostro contesto, non un’anomalia.
Gruppetti minacciosi su motorette scoreggianti.
Giubbini in jeans col pelo bianco e scarponcini scamosciati gialli.
Gli anfibi con la punta esterna in acciaio, l’Henry Lloyd rigido come un baccalà, la U verde sulle chiappe dei jeans, le felpe floreali (vere o tarocche), le calze a rombi, il bomber indossato al rovescio – con l’imbottitura arancione esibita come una sfida.La schiuma da barba e le catene della bici nascoste sotto la giacca a vento a Carnevale.
Il GREST che si trasformava in caccia all’uomo appena il prete si distraeva.
Il calcio a sei del CSI che generava più tensioni del derby con l’Atalanta.
Il caos infernale delle lezioni di catechismo del venerdì pomeriggio.
Gente di sedici anni che ne dimostrava trenta.
Una costante sensazione di tensione e pericolo, che però tutto sommato attraeva magneticamente, con lo stesso meccanismo dei film horror.
Quando ho letto Machiavelli ho pensato che doveva aver frequentato un oratorio simile al nostro – nonostante non fosse ancora stato inventato.
C’era una specie di tornello all’ingresso, una vera follia.
A cosa può mai servire un tornello in un oratorio? Si aspettavano affluenze di massa per la benedizione delle uova sode o il torneo di triangolino? (Chi non sa cosa sia lo chieda – risponderemo).
Su quei tubolari si andavano a sistemare i più grossi, i più aggressivi, i più carismatici, con conseguenze immaginabili per chi doveva entrare. Una pioggia di legnate a nocche chiuse sulla testa (noce si chiamava, se non erro), randellate a dita unite sulle orecchie, ginocchiate sul quadricipite (also known as lopez, chissà perché) sballottamenti vari e molestie verbali raffinate nella loro estrema volgarità.
Quando ho fatto il militare, per capirci, mi sono sentito a casa.
L’unica differenza apprezzabile era che il prete del tóre aveva un’amante sopra la bottega degli alimentari, mentre il cappellano della caserma pare avesse un amante appena fuori porta.
Un amante senza apostrofo.
In chiesa, un enorme ecomostro in vetrocemento, sembrava che questo clima si alleggerisse.
Ipnotizzava tutti il riverbero della voce del prete, per qualche misteriosa ragione molto simile a quello usato da Peter Gabriel in quegli anni.
Eravamo obbligati a confessarci.
Cosa si può mai confessare a quell’età?
Con la comunione andò anche peggio: per via di un innamoramento infantile torbido e incontenibile, io e un compare una domenica prendemmo con aria angelica l’ostia cinque o sei volte di fila, solo per il piacere tutto medievale di lumare di nascosto in chiesa una bambina che amavamo entrambi, equamente.
La gelosia non era prevista, ce la saremmo spartita come un Goleador.
Possibilmente senza tagliarla a metà.
E il capolavoro assoluto consisteva nel non aver ancora ricevuto la Prima Comunione.
Sarà stato per via dei dischi di Ozzy Osbourne che ascoltavo con mio cugino?
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