La barretta di cioccolato

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Mentre fotografavo una madre che teneva in braccio la sua bimba, seduta a terra di fronte a transenne e polizia, improvvisamente si è girata verso di me; guardando dritto dentro l’obiettivo, è scoppiata a piangere. In quel momento mi sono sentito il più spietato degli aguzzini. Mi sono detto: “Ma cosa sto facendo qui? Dovrei essere di là con loro, a battermi con loro, a battermi per loro”. Porsi di fronte al dolore degli altri pone numerosi e terribili quesiti, morali e non solo, su quel quid inafferrabile della fotografia, sempre in bilico tra testimonianza e voyeurismo, visione e freddo distacco. Tornano alla mente le parole della fotografa americana Margaret Bourke-White, entrata a Buchenwald nel 1945 assieme agli Alleati: “Lavorare con la macchina fotografica mi dava quasi sollievo. Frapponeva una sottile barriera tra me e l’orrore che avevo di fronte, sebbene allora non mi rendessi conto della facilità con cui la gente è portata a dimenticare: ero assolutamente convinta che l’inferno dovesse essere documentato.”

Harmica, Tovarnik, Röszke: piccoli paesini dei Balcani, l’inferno che doveva essere documentato lungo il cammino dei profughi attraverso le frontiere di Ungheria, Serbia, Croazia e Slovenia. Un abominio di disumanità a due passi da casa. Centinaia di persone ammassate lungo i confini chiedendo di entrare nella fortezza Europa, sempre più arroccata in mezzo alla fiamme che la circondano. Guerra e disperazione premono alle porte. Uomini, donne e bambini lasciati a dormire per strada, in mezzo ai campi, con temperature che di notte scendono sotto i dieci gradi, quando non piove. La vergogna del filo spinato in Ungheria, delle linee ferroviarie bloccate per non far entrare la peste della miseria; una rimozione collettiva per non guardare negli occhi il leviatano che nuota negli abissi del nostro benessere. La verità è che Sua Maestà la Merce ha molto più diritti di una persona nel capitalismo globalizzato, Lei può circolare liberamente. E un nuovo modello di iPhone non sarà mai abbandonato sulla spiaggia di Bodrum.

Camminando nei campi a Tovarnik, in Croazia subito dopo il confine con la Serbia, ho assistito a un lungo e incessante incedere di persone che avevano perso tutto, portando con sé – come fanno i poeti – solo la propria storia e il proprio passato. Tante le mamme che tenevano in braccio o a spalle i loro bambini, spesso esausti per un viaggio interminabile. Molti i giovani provenienti da Siria e Iraq, che sembravano quasi contenti di vedere un fotografo, per salutarlo e chiedergli informazioni su “the border”. Il confine: ciò che ci divide è un tratto di penna su una cartina geografica, il segno del potere. Ma è anche il con-fine, due aree divise che hanno una “fine” in comune; il contatto è inevitabile, nonostante le barriere e i muri costruiti.

Di fronte a questo grande esodo, appare in tutta la sua chiarezza l’oscenità della soluzione burocratica cercata dall’Unione Europea. Quote, numeri, i migranti sono un vantaggio per l’economia, i migranti servono perché non facciamo più figli. Sempre e comunque la nostra utilità, sempre e comunque a nostra disposizione: riusciamo a monetizzare anche disperazione e miseria. Dilaga l’incapacità di vedere noi stessi negli altri, la perdita della grazia del confronto e la fine di ogni sguardo. Un’estasi di egoismo: “Macellaio, a quanto me la lascia questa famiglia che scappa dalla guerra?”

Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare”, ha scritto una volta Ernest Hemingway. Probabilmente era ubriaco, come spesso gli capitava. Il mondo è un bello schifo di inferno, e se vale la pena lottare per esso è solo per renderlo un po’ meno inferno, sebbene mi sia sempre più difficile credere nell’uomo, e mantenere un barlume di speranza verso il futuro. Ma a Tovarnik la speranza si è presentata davanti alla mia macchina fotografica. È una bambina di circa 12 anni che, dopo aver ricevuto una barretta di cioccolato dalla Croce Rossa, si sporge con il braccio oltre le transenne per offrirla a un poliziotto. Lui se ne stava lì rigido e serio col manganello ben saldo alla cintura, quando sul suo volto in plexiglas è apparso un timido sorriso. Disarmato dal santo dire di sì dell’innocenza, ha quindi allungato a sua volta la mano. Quella bambina, molto probabilmente, oggi si trova in Europa. Forse in Austria, forse in Germania. Cresciuta tra le macerie, in lei risiede la speranza di un mondo più umano. Sono certo che, per il resto della sua nuova vita, continuerà a donare un po’ della sua cioccolata a chi lotta dall’altra parte del muro.

Le foto pubblicate qui su Odiopiccolo fanno parte di una più ampia mostra intitolata “The border”. Sarà in esposizione nel municipio di Moniga del Garda dal 31 ottobre al 22 novembre, col patrocinio dell’Assessorato al Turismo e alla Cultura, e dal 28 novembre al 6 gennaio presso il Museo Nazionale della Fotografia di Brescia.

 

 

 

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