Vi porterei a cene sulle stelle

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Alla mia età mio padre aveva già una figlia di diciannove anni e uno di sette.
Lei intraprendente giovane donna dei primi Ottanta, lui sdentatissimo, magrolino bimbo caschettato.
Il babbo portava dei bei baffi folti, come molti a quei tempi, indossava giacche quadrettate e guidava con disinvoltura una Golf I bianca (che gli rubarono ripetutamente – erano anche gli anni dell’eroina).
Nonostante non facessi parte di una famiglia numerosa, tutti i riti tradizionali e le conseguenti scampagnate nell’ovvio mi rassicuravano come un abbraccio troppo stretto, ma caldo e piacevole.
Le generazioni proseguivano affiancate, senza soluzione di continuità.
Mia nonna preparava per tali occasioni, sferruzzando sulla sua poltrona in velluto verde, dei micidiali maglioncini tirolesi, quelli con dei testicoli lanosi appesi al colletto, aderentissimi, irritanti oltre ogni immaginazione, improponibili in pubblico nell’era delle marche e delle felpe serigrafate.
Li indossavo per farla contenta, sofferente ed eroico. A molti anni di distanza le chiesi perché lei, fiorentina purosangue, avesse questa bizzarra fissazione per la moda alla Franz Joseph.
Pensavo piacesse a te” fu l’indimenticabile risposta.

Con tutti i difetti del caso, ho sempre avuto ben chiaro il senso della famiglia, del passaggio di testimone, del dialogo generazionale, del trasmettersi qualcosa, anche se spesso non era ben chiaro che ci fosse mai da trasmettersi.
Oggi, guardandomi intorno, devo mestamente riscontrare una sterilità metaforica e letterale di una parte della mia generazione.
I miei amici, o perlomeno la maggior parte di loro, non sono sposati e non hanno figli, è un fatto.
Il sottoscritto compreso.
La cosa fino a qualche anno fa mi faceva sorridere, sotto sotto me ne compiacevo anche, forse in un malinteso senso della non-banalità. Ah, io sì che sono libero!
Oggi invece la constatazione è un po’ amara.
Kierkegaard, in ‘Aut-Aut’ se non erro, sosteneva che ci sono tre possibili fasi nella vita dell’uomo.
(Via quelle facce annoiate, giuro che la faccio breve.)
La prima è quella estetica: la felicità è fare quel che mi aggrada, che mi dà piacere, che mi fa godere.
La seconda è quella etica: non faccio più solo quel che mi va, che trovobello, ma capisco che esiste anche qualcosa che è giusto fare.
E magari mi accorgo addirittura che esistono anche gli altri e, surprise!, anche loro hanno delle necessità.
La terza è quella religiosa: le mie scelte non sono governate più solo da valori morali, ma da una visione della vita che trascende la quotidianità e la storia.
Si può concordare o meno col cervelluto danese, ma è evidente che il problema principale, perlomeno in Italia, è la stasi collettiva di milioni di persone, ancorate alla fase adolescenziale della vita.

Tempo fa feci una patetica orazione anti-riproduttiva a una collega, tutta imperniata (l’orazione, non la collega) sul consueto nichilismo prêt-à-porter.
Non posso creare nuova vita in questo mondo infame! (con involontaria, comica citazione da Roma capoccia…)
La paternità è un’impostura culturale!(Sessantotto misto psicanalisi misto furberia)
Ci sono già milioni di bambini infelici al mondo!(falso discorso pro-adozione, retorica di bassa lega)
Lei mi guardò con un sopracciglio alzato, e liquidò la questione semplicemente, facendomi notare senza troppa acrimonia che avevo una visione appunto adolescenziale del fare figli.
Mi arrabbiai moltissimo.
Ovviamente aveva ragione lei.

Mi rivolgo agli amici maschi, quasi sempre in fuga da qualcosa, spesso terrorizzati dall’impegno, mai davvero rassegnati a una vita normale.

Parlo a me stesso, con due convivenze fallite alle spalle, un cane traumatizzato per via di un branco composto e frantumato e poi ricostruito e infine nuovamente sfasciato.
Parlo a tutti noi e alle nostre compagne, che aspettiamo di avere seicento anni per avere figli, perché sai il lavoro, eh ma le vacanze poi non le faremo più, chi ha detto che è obbligatorio?, hai presente quanto costano gli omogeneizzati?, voglio aspettare quella giusta e così via.

Facciamo i Marty McFly de noàlter: prendiamo le foto di noi stessi da bambini, guardiamole e torniamo indietro nel tempo.
Sì, certo, l’odore che c’era in casa dei nostri genitori, i quadri alle pareti, la moquette.
Nostalgia, certamente.
Non è questo il punto, tuttavia.
Entriamo nella testa dei nostri spesso avventati, scriteriati genitori, e proviamo a farli ragionare con la logica apparentemente ultra-razionale di oggi.
C’era la liberazione sessuale, la crisi energetica, la Guerra Fredda, la minaccia atomica, un’inflazione demenziale, la stagnazione sociale, nemmeno uno straccio di Sistema Sanitario Nazionale, il terrorismo rosso, nero e di Stato, i monocolore DC…
La vedete la fotografia che sta sbiadendo?
Lo vedete quell’allegro, sgangherato duenne in salopette e scarpine che scompare gradualmente dalla vista?
Forse vi siete accorti che la nostra, alla fine, è banalmente una visione della vita che ha come conseguenza la negazione della vita stessa.
Se avessero ragionato come noi, non esisteremmo.
Fine della storia.

C’è una canzone di Piero Ciampi, tesa e cupa come forse solo lui in Italia ha saputo essere.
Si chiama ‘Sporca estate’.
Andatevela a cercare.
Un pianoforte metafisico, la consueta voce che trasuda vino e intensità, alla fine anche degli archi – se dramma deve essere, che lo sia fino in fondo.
Ecco che attacca la voce.
Figli, come mi mancate!
Sembra la lettera di un padre ai bimbi lontani, forse per lavoro, forse perché la famigliola è in villeggiatura.
Fa pensare alle vacanze sulla Riviera degli anni Sessanta.
Poi si capisce che si tratta di tutt’altro.
È il lamento di un uomo solo, un gaudente fallito, la presa di coscienza del vicolo cieco che rappresenta appunto la vita vissuta esteticamente, per dirla col buon Kierkegaard.
È un urlo verso l’Assenza.
La perfetta sintesi della sensazione che può darti tornare a casa e spalancare una porta sulla mancanza.

Se vi capita un buon tramonto, prendete l’auto e andate a farvi un giro, possibilmente in campagna.
Non abbiamo vincoli, possiamo fare quel che ci pare.
Mettete sullo stereo la canzone di Ciampi.
Pensate alla foto che sbiadisce.
Alzate il volume.
Pensate a che punto della vostra vita siete arrivati.
Se non vi si stringe almeno un po’ la gola vi porto a mangiare fuori, offro io.

Figli, vi porterei a cena sulle stelle
Ma non ci siete
Ma non ci siete
Ma non ci siete
Ma non ci siete

 

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2 comments

  1. Riccardo 18 Marzo, 2013 at 16:29 Rispondi

    Bellissimo.Davvero. Non posso che essere d’accordo con quanto scrivi caro Dalmata… visto che in questa immagine un po’ pavida ho proprio rivisto me stesso e la mia generazione.Bravo finalmente qualcuno che ha il coraggio di dire le cose come stanno!! eheh
    Brao

     

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