In questa spazio vuoto, buio e illuminato, girano fantasmi tra i più sublimi. Su questa sedia, su cui non siede nessuno, se non io, che non ho mai parlato di nulla, se non di me, guardo fisso negli occhi Emma e Chloé, tra milioni di bugie e decimali di slanci del cuore.
Emma e Chloé volano a dieci centimetri dal vuoto. Un movimento perpetuo e rotatorio, rincorrersi è sapere di non toccarsi. Un cerchio fatto di strade nuove, un’unica vecchia strada resa irriconoscibile dalla fantasia. Dal desiderio. Ma forse straparlo, forse è lo stesso.
Una nebbia sottile, un grigio senza sfumature, lampioni, arcate, marciapiedi, marmi bianchi, riflessi azzurri, un orologio dorato, Prometeo che rubò il fuoco per preparami un caffè. E l’umanità lucente delle superfici, l’aria metallica, digitale, potrò mai tacere la bellezza? Potrò smettere di parlare di Emma e Chloé?
A dieci centimetri dal vuoto mi guardano negli occhi, ricordando la mia bravura a fallire il dolore. E allora? Io parlo e parlo solo di ciò che mi sta davanti, dove mi trovo al sicuro e ritrovo coraggio. Ha senso solo quanto è vicino agli occhi. Disperatamente vicino, distorto, inverosimile.
Embé, ho fallito il mio dolore. E allora? Loro non mi faranno mai smettere di parlare di me. Sono il mio tema preferito, di cui nulla ho saputo spiegare. Una conoscenza innata. Una ricordanza genetica a dieci centimetri dal vuoto.
In realtà, ignoro chi siano Emma e Chloé. Lo ignoro, sia detto, al di là di qualche bagliore colto con la coda dell’occhio. Penso che siano la stessa persona, a questo punto. Ho sceso, dandovi il braccio, pochi gradini e sono caduto. E’ il mio modo di capire, cadere. Senza l’aiuto di nessuno. Ma per parlare di me, parlo di loro. Loro sono l’invenzione che non sono mai riuscito a seguire. Neppure. Sono il silenzio che non sono mai stato capace di essere.
Ecco di cosa non parlerò, se tacere mi sarà impossibile. Non parlerò di Emma e Chloé, se loro smetteranno di rincorrersi a dieci centimetri dal vuoto. Ma così è una condanna a parlare. Di Emma, che amo e odio. Di Chloé, che odio e amo. Per entrambe provo disprezzo e in entrambe trovo il mio inizio. Dovevo aspettarmelo, e dirò di più: i nostri inizi combaciano. Punti mobili su una retta, su un rumore di fondo. Dove io abito.
Una stanza fredda. Ronzante. Qui, io abito. La mia sedia su cui non siede nessuno. Uno spazio vuoto. Un suono di passi, lontano. E la sagoma oblunga come di un essere umano, che alza la saracinesca del Caffè Loggia sui volti di Emma e Chloé, che si sfiorano, si baciano. Scompaiono.
– Ma hai dormito su questa sedia per tutta la notte -, chiese il barista al ragazzo.
– Mi sa di sì, ho bevuto un po’ e sono crollato. Credo di aver sognato tutta la notte -.
– E’ stato un bel sogno, almeno? A guardarti non si direbbe -.
– Non saprei. C’erano loro, Emma e Chloé. Amore dolore, la rima più antica difficile del mondo. E poi ho segnato di cadere, lento, come una nausea, fermandomi a soli dieci centimetri. Da cosa, giuro, non lo ricordo -.
– Dai, entra. Se hai pazienza che Prometeo scaldi la macchina, te lo offro io un caffè. Raccontami un po’ di Emma e… come si chiama quell’altra? -.
– Chloé -.
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