Un soffio caldo nel vento

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Auschwitz

Lo dico subito: sono stata prigioniera ad Auschwitz. Mi chiamo Elisa, e faccio la giornalista. Ho vissuto sulla pelle gli orrori nazisti, e per me l’amore ha sempre avuto il dolce viso di una donna che, però, era felicemente sposata; quante interminabili notti vissute guardando le stelle pensando a lei!

Un giorno, un mio collaboratore, mi chiama e mi dice che ha rintracciato uno dei miei aguzzini del lager e mi conferma che, con una scusa burocratica, avevamo appuntamento con lui, a casa sua. Non voglio piangere, forse però è meglio non farlo di fronte a lui. Porto con me la sconfitta di chi è stato ridotto ad essere il numero di un corpo da sfruttare in qualsiasi modo possibile. Guardo il tatuaggio sul mio braccio, lo tocco, come faccio spesso, quasi fossero quei numeri a rendermi viva. Sono ancora prigioniera di quel campo e, nonostante siano passati decenni, non ho mai smesso di sentire forte le urla di quei macellai, il dolore della loro violenza, e così piango forte, in preda ad un dolore ancora vivo e potente. L’orrore vissuto in quel campo è presente ogni giorno, in ogni pensiero, azione, non mi lascia mai. Le grida di chi veniva torturato, picchiato, ucciso, l’odore dei corpi in decomposizione, quello della carne che brucia, il sibilo dei proiettili sparati a bruciapelo soltanto per ricordarci che le nostre non vite erano appese ai loro capricci, e poi il respiro di quegli animali che ogni giorno mi picchiavano, mi violentavano, mi umiliavano, costringendomi a fare tutto ciò che passava loro per la testa. Ricordi impressi nella carne, fin dentro le ossa, una prigionia senza fine.

Un sondaggio del comune per assegnare una pensione. Con questa scusa mi ritrovo di fronte a lui, ormai vecchio e affaticato. Fuori, ben nascoste, le forze dell’ordine attendevano il momento giusto per entrare ed arrestarlo.  Mi guarda spesso mentre il mio collaboratore gli domanda del suo passato. So che mi ha riconosciuta, lo sento, i suoi occhi trasmettono un brivido ghiacciato doloroso.

“So chi sei, puttanella, e so che alla fine di questa discussione verrò arrestato, li vedo i poliziotti là fuori. L’ho capito perché mai nessuno mi ha fatto domande così sciocche come quelle che mi stai facendo tu. Alla fine si sono capovolti i ruoli, vero? Ora è la mia vita ad essere nelle tue mani…”

Sento il bisogno di vomitare, e allo stesso tempo di sparargli un solo colpo in fronte, proprio come faceva lui nel campo assecondando i suoi umori.

“Non so come m’avete trovato, ma ora siete qui e volete una confessione che non tarderò a darvi. Ormai sono vecchio, e non ho altro che i miei ricordi, posso anche vivere quel poco che mi resta coccolato nelle vostre prigioni. Ora volete che confessi, che vi dica che mi sono arruolato nell’esercito per sfuggire alla povertà, e che facendo carriera mi ritrovai in quel campo, nel tuo campo, Elisa, è il tuo nome, vero? Ho sempre avuto un’ottima memoria. Non ero che un militare, e gli ordini non si discutono, e di questo non potete farmene una colpa. Avevano deciso l’eliminazione, ormai sapete tutto, in quel campo erano pochi quelli che avevano ancora forze per lavorare… ”

Non posso trattenermi. Mi alzo in piedi e mi metto a urlare.

“Per questo uccidevate la gente secondo i vostri capricci? Per questo non ci nutrivate, ci picchiavate di continuo, violentandoci, torturandoci come più vi divertiva? Solo perché in guerra gli ordini non si discutono?”

Eravamo una massa di militari affamati, da mesi non avevamo contatti con la famiglia, con le donne, sempre al fronte, a combattere, e una volta sistemati in quel campo sfogammo con una rabbia senza freni tutti i nostri istinti più bassi …”

Gli do uno schiaffo, il mio collaboratore mi prende per le braccia e mi aiuta a sedermi. Lui è impassibile, calmo.

“Puoi picchiarmi quanto vuoi, cara, non ti servirà a nulla. Sono un vecchio che non può più difendersi, ormai. La vita che ho fatto è quella che ho voluto fare, sempre. Ma tu, Elisa, sei condannata, lo eri allora e lo sei oggi; condannata al dolore, ai ricordi, i tuoi incubi. Sai benissimo chi sei, se sfiori il tuo avambraccio. Non sarai mai libera come lo eri prima della guerra, anzi, dovresti essermi grato, saresti morta in poche settimane se non ti avessi preso come cameriera!”

Un lampo di luce accecante m’investe appieno, scatenando l’ultima folle ed energica rabbia che possiedo. Tutto l’odio che covava in me silenzioso. Prendo il revolver che ho nella borsa, guardo il mio aguzzino con un sorriso sprezzante e, con una calma mai avuta gli rivolsi, per l’ultima volta, la parola.

“La guerra è solo dolore che si aggiunge al dolore innato che sopportiamo, ma la tua follia è quella di chi non è uomo, di chi non lo è abbastanza da battersi per una dignità che perdiamo ogni volta ci si prospetta un guadagno, un profitto sterile perché ottenuto con la violenza, con il sopruso, sulla pelle di chi rispetta la vita e l’alto valore che dovrebbe avere. Hai ragione, non sarò mai libera, sarò sempre prigioniera di quel campo, di te, di tutto il male che siete riusciti a farmi, ma la verità è che siete voi i veri prigionieri, i veri schiavi di quel passato che nessuno più vuole ricordare, vedere, ammettere. Schiavi della vostra stessa violenza, di tutto il male che avete fatto, di tutti gli orrori di cui vi siete macchiati e che nessuno potrà cancellare, mai. La mia libertà è rimasta in quel campo, è vostra, prigioniera degli incubi che il sonno mi porta continuamente, ma ora, adesso, davanti a te, davanti al mondo che ci ascolta posso finalmente, e giustamente, riprendermela.”

Sento entrare i poliziotti, si fermano a pochi metri da me, urlano di abbassare l’arma. Li guardo, sorrido, poi guardo il vecchio, sorrido, e dopo aver tolto la sicura, m’infilo la pistola in bocca e sparo. Un colpo secco, deflagrante, e tutta la mia sofferenza, il mio dolore, i miei ricordi spariscono, sciogliendosi nell’aria sudicia di quella stanza. Sono libera, finalmente, di nuovo e per sempre; ora posso volare, sorridere, ed essere un soffio caldo nel vento.

 
auschwitz

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